120 battiti al minuto
Regia e sceneggiatura di Robin Campillo, con Nahuel Pérez Biscayart, Arnaud Valois, Adèle Haenel, Antoine Reinartz, Félix Maritaud. Francia, 2017.
Inutile ingannarsi si tratta di un piccolo capolavoro. Robin Campillo ha ricostruito sulla base dei suoi ricordi di quegli anni così combattuti, quando l’AIDS si diffondeva senza controllo, tra politiche assenti da parte dei governi e una società civile che non si aspettava una epidemia vera e propria.
Robin Campillo racconta le azioni civili di Act up, il tentativo dell’associazione di sensibilizzare la società civile francese, ma soprattutto le autorità che negano l’esistenza del problema. Anzi emergono bene i tentativi di mercanteggiare sulla vita di essere umani che vengono percepiti come minoranze che non rispettano la moralità ipocrita e piccolo borghese.
I personaggi ricordano sempre quali sono le categorie sociali a rischio: detenuti, omosessuali, lesbische, trans, drogati. Neanche al governo Mitterand, governo socialista, interessano questi essere umani.
Il gruppo Act up di Parigi ricorda anche le parole vergognose di Baudrillard, che descriveva i costumi degli omosessuali come pervertiti e dediti al sesso quasi orgiastico. La descrizione del filosofo francese è quasi uguale a quella di un medico cattolico e di destra. Act up attacca degli adesivi sulle loro pubblicazioni per segnalarne la pericolosità in modo ironico e scherzoso.
Ma all’ironia si unisce spesso l’azione vera e propria, quella da combattenti passivi, alla Gandhi, con cui il movimento mette le industrie farmaceutiche di fronte alla loro ipocrisia e alla loro sete di soldi guadagnati senza etica.
Il sangue finto è una forte metafora, da liquido che dentro il nostro corpo ci consente di vivere, traghettatore di energia, degli elementi vitali, in realtà si rivela essere debole, capace di trasformarsi in veleno. Dal Dracula che si alimenta grazie al sangue e questo lo rende eterno e potente, ora il sangue è solo una trappola.
Un film che sembrerebbe al maschile, dove le donne sembrano nel sottofondo della storia, invece se ascoltiamo bene, troviamo madri che aiutano i figli a sopravvivere, madri che accettano le scelte dei figli e delle figlie, donne che combattono, donne che amano e che sanno guidare il dolore e la rabbia dei maschi morenti.
Due parole andrebbero spese per Adèle Haenel, la donna combattente, ma anche geniale, capace di immaginare azioni eroiche per scuotere le coscienze.
Presente e assente nella narrazione, il personaggio di Haenel, Sophie ricorda al pubblico che la malattia non può spegnere i cuori più forti.
Così anche Hélène, madre di un ragazzino ammalatosi per le trasfusioni di sangue, scandalo che all’epoca colpì la Francia. La donna rimane affianco al figlio, che non fa parte delle categorie discriminate, anzi si unisce ad Act up e ne è una delle attrici principali.
E così via fino alla madre di Sean, madre che affianca il figlio in tutto il suo dolore.
Un film necessario, prima ancora che bello e stupendamente realizzato. Necessario perché abbiamo abbassato la guardia, perché non temiamo più l’AIDS e l’HIV. E la malattia si diffonde, ancora e comunque.
Il silenzio è morte.
Andrea Grilli
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