Da Bastardi senza gloria a Django Unchained… fine della poesia
« Scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie »
(Theodor W. Adorno, 1949)
Anche se anni dopo Adorno criticherà negativamente questa frase, mi sembra che la stessa sia un ponte, una giuntura tra gli ultimi due film di Quentin Tarantino. Bastardi senza gloria e Django Unchained.
Ricordiamoci brevemente le trame. Nel primo film un commando alleato, arricchito da un soldato tedesco disertore, gira per l’Europa uccidendo nazisti. La missione finale li vede impegnati nell’uccidere tutti i gerarchi compreso lo stesso Hitler. La Germania descritta è quella nazista.
Nel secondo film invece, Django Unchained, un tedesco (lo stesso attore Christoph Waltz recita in entrambi i film il cattivo nel primo, il buono nel secondo) salva Django dalla schiavitù e muore per lui e per la libertà della moglie, Brunilde.
Christoph Waltz ha vinto due Oscar per questi due film ed è il minimo comun denominatore, anzi il nesso tra i due film. Perché?
In Bastardi senza gloria Tarantino racconta una totale degenerazione di un popolo e di una cultura, anzi l’assenza stessa della cultura. Questo elemento è sottolineato dal fatto stesso che la morte di Hitler e dei suoi gerarchi avviene proprio dentro un teatro. Un teatro. Il luogo dove Re e tiranni muoiono colpiti dalla spada della creatività dello scrittore e degli attori. Riccardo III, terribile dittatore dell’omonima opera di Shakespeare, trova la morte sul palcoscenico, così come i gli assassini del padre di Amleto e così via in un universo di anarchia che non perdona tiranni e malfattori della libertà umana.
Il popolo tedesco cancella una storia di letteratura, cultura, filosofia appiattendosi sulle folli elucubrazioni di un piccolo dittatore. Dov’è il popolo tedesco, quello stesso che in Django Unchained combatte per la libertà di due schiavi?
Ascoltiamo King Schultz, video in inglese con sottotitoli in italiano.
Nel seguito King Schultz offre il suo aiuto a Django perché si sente responsabile dopo averlo liberato e perché un tedesco non si potrebbe rifiutare avendo incontrato un Sigfrido.
Dov’è il popolo che può sentire nel cuore una storia così romantica, sognare l’esistenza di un eroe e pensare di averlo trovato nella cruda realtà?
Forse in qualche modo è vero che con l’arrivo del nazismo, di Auschwitz, finisce la poesia. Finisce la poesia tedesca, si spegne quella fiamma che nell’Ottocento aveva espresso una forza senza pochi.
Tarantino realizza uno specchio con Waltz, carnefice e salvatore. Il vero Sigfrido è lui, ma ormai non ha più l’anima e i sentimenti di un popolo che lo ispirino. Muore col finire dell’Ottocento, muore prima che con la Guerra di Secessione inizi un’era di guerre talmente sanguinose e feroci da cancellare l’idealismo romantico della poesia.
Forse la poesia è già morta quando arriverà il nazismo, è morta nei campi di Gettysburg, nelle trincee della Somme o di Caporetto. Ma è morto anche travisando il significato mitico della leggenda dei Nibelunghi, tanto amata dai nazisti.
Sigfrido non salverà più Brunilde, perché il suo spazio leggendario, culturale e mitologico è occupato dal vuoto totale, dalla insensatezza della ideologia nazi-fascista.
Brunilde è ancora in quel castello, prigioniera di un drago.
Sigfrido vaga cieco per il mito.
Andrea Grilli