Intervista a Moni Ovadia
Abbiamo incontrato Moni Ovadia a Minerbio il 26 aprile 2000 qualche ora prima di andare in scena. È stato un incontro con il pubblico bolognese e del comune di Minerbio per parlare della cultura ebraica e non solo. Confrontarsi con un uomo di così grande cultura, vuol dire parlare di molto più di una semplice domanda. Gli argomenti e le parole scorrono come fiume.
Moni Ovadia è (lo diciamo con affetto) logorroico, una domanda è l’occasione per aprire mille rivoli, mille argomenti, di cui Moni Ovadia parla con cognizione di causa, con sapiente cultura. In diversi momenti ha parlato della spiritualità ebraica, ha spiegato passi significativi delle antiche scritture, ha soprattutto posto l’accento sulla libertà dell’uomo. L’uomo nasce libero, è libero, e questa libertà ha fondamento nelle stesse parole del Signore. L’uomo è Suo servo e di nessun altro, niente tiranni, tutti uguali.
Ascoltarlo è un piacere, vi riportiamo le sue risposte alle uniche due domande che siamo riusciti a fare per il ridotto limite di tempo.
Qual è la funzione dell’umorismo ebraico oggi giorno?
L’uomorismo ebraico autodelatorio, rivolto verso se stessi, cotnro se stessi, è una specie di sterminato patrimonio, come uno scrinio senza fondo, da cui escono perle di intelligenza. Mi rendo conto che ogni volta che mi avvicino a questo repertorio, che è un repertorio tradizionale, elaborato da ognuno di noi a sua maniera, di cogliere nuove suggestioni.
Sembra offrire mille sfacciatature possibili per un cammino È come se fossero per me i capitoli di un lungo libro che potrei intitolare “L’ebreo che ride” (1), non per rifarmi al libro, ma per rifarmi al cammino umoristico, un cammino millenario.
Che funziona ha oggi? Dovrebbe avere una grande funzione, ma come tutte le spiritualità quella ebraica ha dei problemi grossi, ha dei problemi estremamente densi e molto gravosi per l’identità ebraica, perché c’è una sorta di delirio di sé.
Nel momento in cui non sei più disperso, esiste una terra, questa terra ti da una copertura di sicurezza e addirittura in alcuni casi produce forme di teoparanoia o di delirio dell’anticipazione messianica.
Secondo me questo è il vero problema ebraico nel futuro: l’idolatria di sé.
Allora l’umorismo potrebbe avere una enorme funzione, ma sembra temporaneamente affaticato L’umorismo è stimolato sempre in qualche misura dal rischio. C’è una sorta di ritorno in Egitto degli Ebrei. Ma non è l’Egitto quella della schiavitù dura, è quello della schiavitù dorata, che è molto peggio. Perché il primo ti fa rendere conto di chi sei, viene voglia di ribellione, di pensiero, l’Egitto della schiavitù dorata fa rimpiangere a quella parte di ebrei che uscirono con Mosé la terra da cui fuggivano.
Allora c’è qualcosa di estremamente inedito per gli ebrei ed è la costruzione di un Egitto non fuori nell’esilio, ma in quella che dovrebbe essere una casa.
Il problema della terra con gli ebrei, del loro rapporto è estremamente drammatico e verrà fuori nella sua pienezza quando verrà fatta la pace con gli arabi.
Credo sarà l’attesa di qualche lustro non più. Questa pace arriverà.
Allora si capirà che esiste ancora una funzione per l’ebraismo, che cos’è il problema degli ebrei, se il problema degli ebrei è la riattivazione di una presunta israele biblica che non esiste più, che non è esistita per duemila anni. È quello il problema?
È altro?
Quale sarà il rapporto che gli ebrei stabiliranno nel futuro fra particolarismo e universalismo?
In questo momento l’umorismo ebraico sembra guardare al suo glorioso passato, così faccio io certo per sollecitare il futuro.
E questo è il meccanismo della memoria ebraica. Noi per larlare del domani, guardiamo all’ieri, nel senso che tutto il lavoro ebraico è percuotere quel testo millenario e attraverso un lavoro emeneutico di interpretazione, rivitalizzare i pozzi, le fonti, che le acque non siano stagnanti, ma siano sorgive.
L’uomorismo dovrebbe percorrere questo cammino, non siamo noi la generazione. Conosco i limiti della mia generazione: sono intanto di guardare solo dentro i limiti della mia generazione.
Credo che la nostra generazione, per attivare un meccanismo nuovo di umorismo autodelatorio sufficientemente feroce da scardinare tutta una serie di nuovi totem, debba uscire dall’Egitto, dal nuovo egitto che è stato il Nazismo, il più duro. Siamo troppo influenzati da questo, è stato qualcosa che ha vibrato un colpo talmente impressionante al cammino ebraico, al rapporto col divino che richiede un tempo di elaborazione.
I segni interessanti ci sono. Molti vecchi ebrei dell’est, che vivono in Israele, non amano l’umorismo israeliano, più rude di quello ebraico, però ci sono segni affascinanti.
Per esempio quesat storiella, che non è umoristica ma parecchio dura di un bambino che gira con suo nonno e questi gli indica un albero e dice “vedi questa quercia una volta non c’era, l’ho piantata io”, poi cammina “vedi questa casa, una volta non c’era, l’ho costruita io”, girano girano e il nonno con la fierezza di dire queste cose, finché il nipote perplesso gli chiede: “nonno, di’, una volta eri arabo?”.
Allora questa storiella molto aspra pone il problema del ritorno ebraico e della situazione già trovata lì, la tragedia di due popoli non prevista.
L’uomorismo potrebbe giovare a scuotere un po’ le acque stagnanti. Forse l’umorismo reciproco, i palestinesi sono persone molte vicine agli ebrei di altri popoli arabi, perché hanno vissuto una diaspora, un esilio. Sono due popoli fatti per intendersi, anche qui ci vorrà ancora un po’ di tempo.
Bisognerà rivisitare l’umorismo e rifertilizzare i campi, riattivare le acque morte attraverso il pensiero, perché l’umorismo ebraico è una struttura cognitiva, non è qualcosa per far ridere, ma per fare pensare.
È sempre per mettere qualcuno di fronte a se stesso.
È un grande strumento di intelligenza e di pietas nei confronti dell’uomo, perhé ne fa vedere i difetti.
Credo che nel cammino umoristico, si debba attendere una generazione che ritrovi i cammini dell’incertezza, i cammini dell’alea, del rischio.
Non c’è il rischio che si conosca della cultura ebraica solo l’umorismo e non altri aspetti?
Credo che l’umorismo abbia avuto successo nei non ebrei perché per questi è stata una scoperta. Gli ebrei erano pensati come personaggi scuri, brutti, difficile pensare che uno di questi rabbini con i riccioli e con un passo pensoso e strano, possa ballare in una platea dopo aver bevuto mezza bottiglia di wodka.
Non è vero che l’ebraismo è stato conosciuto solo attraverso l’umorismo, posso dirlo perché sono il principale responsabile, tutti i miei libri, quelli di Fölkel (2) no, perché Fölkel ha fatto una cosa molto semplice, ha preso dei repertori e poi li ha ordinati. La sua operazione ha avuto il pregio di essere la prima in Italia, io invece mi considero un allievo di Leo Rosten, anche se lui non mi ha conosciuto. Tutti i miei libri collegano l’umorismo alla spiritualità.
Perché secondo me il cammino cognitivo ebraico è inaugurato fortemente dalla opzione umoristica.
Oggi i libri sull’ebraismo in ambito cristiano, cattolico, se ne pubblicano a migliaia, di umorismo ne esistano 7-8. Se noi andiamo a vedere Giuntina (http://www.giuntina.it), casa editrice che pubblica solo argomenti ebraici, pubblicazioni umoristiche forse non ce n’è neanche una.
Ha fatto molto rumore soprattutto nel mio lavoro, quello più conosciuto, Oylem Goylem, che è stata una specie di sorpresa. Ma anche in questo c’è una preghiera sulla Shoà, e ci sono momenti di grande riflessione, di grande tensione espressiva.
Se andiamo a prendere tutto quanto è stato pubblicato, romanzi, salmi, vediamo che le pubblicazioni umoristiche non siano più dello 0.2%.
Assolutamente super esiguo, ha fatto più impressione perché ha permesso di vedere per la prima volta gli ebrei in un modo diverso.
Si parla sempre di umorismo, ma facendo quattro conti vadiamo che se ne parla pochissimo, se prendo il catalogo della case editrici cattoliche dehoniane e le Paoline, trovo centinaia e centinaia di libri sull’ebraismo, ma non trovo libri sull’umorismo.
Dei libri specifici sull’umorismo pubblicati in Italia conosco i due di Fölkel, i miei, uno della Loewenthal (3) e un libro di Rosten, finalmente tradotto come “oy oy oy!” (4). Poi abbiamo Woody Allen, i fratelli Marx, che erano fortemente inseriti nell’umorismo ebraico, però non sono esplicitamente tali. Jerry Lewis, Mel Brooks non sono esplicitamente umorismo ebraico, mentre Chaplin è quello che fa la sintesi più folgorante dei tipi umoristici del ghetto, dello shtetl. Mostra l’universalità di quei tipi che sono quelli dell’omino pieno di disavventure, ma mai domo, dignitoso e sempre pronto a battersi per le buone cause.
Andrea Grilli
Note
(1) di Moni Ovadia, pubblicato da Einaudi, Stile Libero
(2) pubblicati nel 1988 e nel 1990 nella collana BUR della Rizzoli con il titolo: “Storielle ebraiche” e “Nuove storielle ebraiche”
(3) Elena Loewenthal, “Un’aringa in Paradiso – Enciclopedia della risata ebraica”, Baldini & Castoldi, 245 pagg., £. 22.000
(link non più attivo: http://www3.stradanove.net/news/testi/libri/lagri1709982.html)
(4) Leo Rosten “oy oy oy! – umorismo e sapienza nel mondo perduto dello yiddish”, 338 pagg., Mondadori